INFERNO - CANTO V
Tempo fa si è verificata una singolare coicidenza.
Nello stesso giorno in cui cercavo di ricordare uno dei miei brani letterari preferiti tanto da averlo imparato a memoria per puro amore artistico e non per studio o teatro, una amica che sa apprezzare le meraviglie dell'ingegno e dell'animo ha pubblicato qui su internet, in un suo spazio, i versi più belli dello stesso poema.
Si tratta di alcuni tra i passi più famosi della storia della letteratura italiana: il Canto V dell'Inferno, quello universalmente noto come "Il Canto di Paolo e Francesca" tra i lussuriosi del secondo Cerchio.
Non conosco che un milionesimo della produzione letteraria mondiale ma qualunque sforzo mentale non mi fa immaginare che possano esserci versi più completi nella loro terrificante pietà di quelli elegantemente incastrati tra le pagine dell'Inferno. Proprio il Quinto Canto mi precipita, mi immedesima nello sconforto totale dell'autore che a sua volta immagina di assistere all'ennesima tragedia della Giustizia degli Inferi.
Ognuno di noi ha un'immagine dell'Inferno, un'idea precisa. Che ci si creda o meno.
700 anni fa invece, Dante Alighieri aveva nella sue mente mille immagini di quel luogo e altrettante vicende sacre, personali o storiche e mitologiche da inserirvi.
Nelle sue rime straordinariamente originali e mai forzate, Minosse lo ha terrorizzato insieme alle anime dei dannati all'ingresso:
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
E ancora comprende e descrive le condanne e i celebri peccatori, senza giudicarli:
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
e questa visione di pena immensa procede fino all'incontro con gli sofrtunati amanti e fino alle parole più belle e forti messe sulle labbra di Francesca da Rimini:
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
e il vortice di sensazioni sale e si arriva a narrare del primo bacio, casuale, desiderato e non voluto, capitato per un destino più forte delle volontà e punito dalla crudeltà umana prima ancora che dal Giudizio Divino
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante
Love, that exempts no one beloved from loving,
Seized me with the pleasure of this man so strongly,
That, as thou seest, it doth not yet desert me;
Love conducted us unto one death;
Caina waiteth him who quenched our life!"
These words were borne along from them to us.
e l'immensa tristezza del Poeta, il suo svenire, mi fa inevitabilmente chiudere il libro di scatto e talvolta mi bagna il viso quando il dolore altrui si trasferisce su chi lo racconta
e poi su chi lo legge:
Kissed me upon the mouth all palpitating.
Galeotto was the book And the one who wrote it.
From that day no farther did we read there in."
And all the while one spirit uttered this,
The other one did weep so, that, for pity,
I swooned away as if I had been dying,
And fell, even as a dead body falls.
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
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