lunedì 16 gennaio 2012

UNA SCIMMIA NEL MONDO DEGLI UOMINI

CITA

Un mese fa si diffuse la notizia della morte di Cita o meglio "Cheeta": lo scimpanzé-attore il cuo vero nome era Jiggs che interpretò il celebre animale nei più noti tra i film di Tarzan degli anni '30. Erano le pellicole in cui il muscoloso uomo della Jungla viveva attraversa il corpo (più che la recitazione) del campione di nuoto Johnny Weissmuller e Cheeta era l'unico altro personaggio che possiamo ricordare oltre a Jane e al protagonista stesso. A meno che qualcuno non sia così esperto da conoscere i nomi dei "cattivi inglesi" con cappello coloniale e fucile al braccio o sia capace come Moira Orfei di riconoscere qualche elefante o leone in particolare.
In realtà si è trattato di una bufala che il proprietario stesso trascina da molto tempo, vantando una longevità incredibile e fasulla dell'animale nato invece negli anni 60 e involontario impostore di un simile esemplare morto nel 1938.

La riflessione che però mi ha regalato questo decesso, oltre al ricordo romantico di un cinema d'azione semplice e ingenuo, è sull'incrocio di destini tra la finzione e la realtà.

Lord Greystoke, Tarzan, la cui sorte lo proietta nel romanzo originale da neonato figlio di nobili inglesi a cucciolo d'uomo allevato nella jungla da una coppia di gorilla, in un ambiente innaturale per gli esseri umani nel quale lui riesce ad adattarsi vivendo esattamente come una scimmia.

Cheeta o meglio Jiggs: figlio di scimpanzé nato probabilmente in una foresta o comunque naturalmente creato per viverci e che invece si trova da piccolo fino alla morte tra Los Angeles e New York dove vive come un essere umano, cresciuto da una coppia di esseri umani e adattato in un ambiente per lui del tutto innaturale.

Ecco l'assurdo, ecco lo strano scambio tra le vite di un personaggio finto e uno reale: insieme sullo schermo ma che raggiungono il massimo della celebrità semplicemente per aver vissuto le loro vite in maniera invertita e opposta alla rispettiva natura.





martedì 10 gennaio 2012

LE MIE SETTE VITE DI GATTO




Eh, mia cara, le vite già passate:
i canti, le notti e lune tonde
come biglie in calde e profonde
sere, sfiorandoci i baffi lunghi
neppure le ho contate.

Quante vite, amori, quanti graffi!
La prima fui cantante, centrato
da una scarpa. Nella seconda ho amato
e che gatta! Ma solo gli epitaffi
in cuore mi ha lasciato.

La terza su un canotto, capitano
dei pirati nel fiume ho rovesciato
decine di cagnacci. Son stato
attor la quarta: interpretai un "Cirano"
dal vicolo acclamato.

Tante storie, nove code
altre ancora non ti dissi
quelle che qui non ti scrissi
alla prossima mia vita!




lunedì 9 gennaio 2012

FACCIAMO UNA PAUSA

Una delle espressioni più di moda nella poesia come nei testi di canzoni un po' dozzinali è "Silenzio assordante"
Un evidente ossimoro, appunto inflazionato ma di grande efficacia: un'immagine forte per chiunque.

Nell'arte legata più strettamente all'ascolto e all'orecchio i silenzi contano forse quanto i suoni, i rumori o le parole. Il senso di una frase è dato dal suo interrompersi in dati momenti e sul palcoscenico di prosa i ritmi sono dati dai silenzi più che dalla velocità di pronuncia degli oratori.

A volte è nel silenzio che "sentiamo": nel silenzio profondo percepiamo meglio il battito del nostro cuore, il rumore dei nostri pensieri, le nostre angosce.

Certo, in musica potremmo dire che la pausa sia solo l'assenza di note: tecnicamente inizia quando finisce l'ultimo suono e comincia il successivo, quindi è come una mancanza dell'elemento fondamentale. Eppure, guardando uno spartito, non si ha questa impressione: i simboli delle note e delle pause si susseguono riempiendo lo spazio in un meccanismo perfetto e matematico. Non c'è niente di vuoto: pause e note riempiono il vuoto.

"Si stia pure fermi e muti come sassi: la nostra stessa passività sarà un'azione"  (Sartre)

Nessun insegnante di canto può trasmetterci doni artistici, semmai tecnici (ma anche questo avviene di rado). La pausa nel canto e in poesia si combina con gli accenti fino a determinare cosa stai cantando o leggendo. La sosta musicale può appendere il tuo cuore per mezzo, un secondo, persino di più per poi farlo esplodere all'improvviso nel ricevere il completamento della frase parlata e cantata.

I maestri delle pause sono, credo, i grandi cantanti attori della rivista italiana come Petrolini prima e Fabrizi dopo. Ma che dire dei monologhi di De Filippo o ancora Walter Chiari e Proietti che delle pause interminabili hanno fatto un arma micidiale nelle loro battute e barzellette. In musica i re sono forse i crooner del dopoguerra come Sinatra e Tony Bennet perché lo swing permette di giocare sui ritmi e le sillabe come pochi altri generi sanno fare ma anche tutto quel genere musicale legato al teatro e alla canzone recitata che ha come più alto rappresentante Charles Aznavour.

Quel silenzio che ci lascia trepidanti è il protagonista assoluto in Quasimodo


Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole: 

  ed è subito sera.
cosa sarebbe questo brevissimo componimento che tutti conosciamo, senza quella sesta prima della liberazione finale. E' tutto in quello spazio, in quella attesa.


Qui vi lascio, però, con un esempio di uso geniale e straordinariamente prolungato della pausa che permette anche di creare un curioso gioco di parole. Parliamo del "Rocky Horror Show"