L'AIUTO
Meno del solito.
Aveva bevuto molto meno del solito eppure aveva perso il controllo dell'auto
e aveva perso anche l'uso delle gambe. Del suo corpo rimaneva ben poco di utilizzabile: lo avevano salvato con tre interventi chirurgici.
Era ancora vivo. Aveva rischiato la pelle chissà quante volte in vita sua, preso anche coltellate nello stomaco, botte in galera fino a sanguinare ed essere ricoverato ma nell'istante in cui l'auto uscì dall'asfalto a 100 chilometri orari credette fosse finito tutto.
In quella frazione di secondo, credendo fosse l'ultimo suo secondo, riuscì a realizzare una fotografia della sua inutile vita: un flashback come nel peggiore dei film.
Nemmeno sapeva perché fosse ancora in vita: a nessuno interessava dello schifo di uomo che era. Nessuno poteva sapere che odiava sé stesso per tutto quello che aveva fatto e che era cambiato anche se a volte era stato ancora costretto a rubare. Però aveva smesso di usare droghe pesanti ormai da mesi e aveva trovato un lavoro. Gli sembrava impossibile perché non aveva mai davvero lavorato in vita sua e sembrava impossibile che in fondo gli piacesse, nonostante la sua mente e il suo corpo si rifiutassero di lavorare. Testa bassa, ritmo lento, non pensare. Non pensare a cosa sei stato, a quelli che dicevano di essere amici, ad aver commesso crimini che i primi tempi sembravano scherzi, prove di forza e dopo erano diventati normalità, necessità. Quegli stessi semplici crimini che ora lo facevano sentire una bestia. Testa bassa, gira la chiave, metti il pezzo, non pensare.
Non era certo diventato un santo ma non poteva togliersi dalla mente certi momenti, lo schifo del potere nelle sue mani, due omicidi inutili e una vita che voleva diversa anche se ancora non sapeva bene come.
Trovarsi ora impotente, bloccato, handicappato a vita e dolorante in un letto d'ospedale gli parve quasi una consolazione anche se non un'espiazione. Ora almeno era protetto da quel mondo orrendo di cui lui stesso era stato un altrettanto orrendo ingranaggio.
Il carcere non aveva cancellato niente. Entrò in galera convinto di non aver fatto niente di così esagerato. Dopo il processo e negli ultimi anni, invece, aveva visto su di sé il male, il dolore inutile: aveva visto la sua stessa cattiveria riflessa nello specchio di esseri umani come lui e si era sentito un mostro. Aveva letto, sentito, ascoltato e vissuto su sé il dolore che per tutta la vita aveva causato agli altri. Aveva vendicato la sua infanzia orrenda su chi non ne aveva colpe.
Uno schifo. Tutto. Uno schifo. Ora almeno c'era silenzio. Dolore ma silenzio. Sofferenza ma non violenza: nessuno lo odiava in quel luogo e lui non odiava più. Nessuno.
Nessuno
e a nessuno poteva più interessare di lui. Amici non ne aveva: poteva crederlo un tempo ma erano mostri come lui e non avevano bisogno di un paralitico piagnone in un letto d'ospedale. In verità era contento di non rivederli.
Eppure, quel volontario che veniva quasi tutti i giorni ad accudirlo: sembrava che a lui importasse qualcosa di essere lì. Lo salutava tutti i giorni, lo chiamava per nome quando non poteva rispondere e cercava di capire dagli occhi la risposta chiedendo "Come va oggi? Meglio?". Conosceva solo il nome: "Roberto" ed immaginava fossero più o meno coetanei.Una faccia già vista, forse, ma il dolore, i ricordi annebbiati, la poca voglia di sforzarsi a ricrdare non lo avrebbero eventualmente aiutato a riconoscerlo.
Neanche fosse un parente: ogni volta che poteva era lì, talvolta solo per venirlo a trovare e dirgli due parole ma più spesso si prendeva cura di lui in ogni modo; fosse anche per cambiarlo e pulirlo. Non parlava mai di sé piuttosto dava parole di incoraggiamento o comunicava miglioramenti, notizie avute dai medici.
Il ricoverato ancora non era in grado di parlare e non lo sarebbe stato ancora per diverso tempo. Il suo mento e parte delle ossa facciali erano stati ricostruiti. Quando fu possibile sbendarlo cominciò ad emettere qualche gemito o vocale per comunicare i bisogni primari aiutandosi con l'espressione degli occhi. Fu allora che tentò di capire, di comunicare con quel volontario dopo diversi mesi.
"Eh....eh.....ooh! Ehoh" pronunciò poco alla volta, con sforzo ma senza agitazione
L'uomo in piedi lo fissò, soddisfatto di quei primi segni o tentativi di comunicazione
"Tu vuoi sapere cosa faccio qui? - ed attese un cenno degli occhi dell'uomo -
forse è ora che te lo dica, forse è arrivato il momento che tu sappia.
Non sono un infermiere, non sono nemmeno un volontario e neppure autorizzato. Mi sono finto tuo parente per poterti accudire, sono venuto qui così tante volte i primi giorni in cui eri in coma che nessuno dopo ha pensato di verificare chi fossi"
Gli occhi dell'altro cercavano inutilmente di capire come potesse finire quella strana storia. Il battito cardiaco aumentò in attesa di chissà quale rivelazione al momento inmmaginabile.
"Il mio nome avrebbe dovuto aiutarti: Roberto. Ma se ti dico Santi Roberto sono certo che capirai subito. Sono un po' cambiato: barba, pochi capelli ma anche il tempo, il dolore..."
Lo guardò più intensamente e solo a sentire quel nome si ricordò di aver già visto anche il suo volto.
"Ora sai chi sono ma anche se volessi mandarmi via, cosa non semplice viste le tue possibilità di comunicare, ti chiedo di non farlo. Penso anzi che non lo farai".
Dieci anni prima. Un furto che diventa un omicidio. Nessuna speranza: soldi subito o ti avrebbero fatto secco. Un assassinio inutile: coltellate per nervoso e paura a una ragazza e al suo fidanzato che nemmeno avevano reagito. Fu arrestato il giorno dopo. Letizia morì, Roberto Santi guarì abbastanza presto da essere presente al processo.
E ora, proprio l'omicida, poteva riconoscere la sua vittima seduta al suo fianco. Cambiata moltissimo, anche invecchiata con tutta quella barba ma era proprio lui.
Passarono tre giorni di silenzi
poi un altro gemito, appena accennato e a volume basso: "Eheh....eheh, Ih !"
L'altro lo guardò, dritto in piedi: guardò quegli occhi che esprimevano tutto l'assurdo di quella situazione.
"La penso ancora, sai. Sono passati otto anni ma non mi sono più fidanzato. Penso che lo farò, un giorno ma prima devo togliere il troppo dolore che mi porto dentro per quello che tu hai fatto. La sua foto è nello stesso posto, di fianco al letto e un'altra sulla libreria. In soggiorno il calendario è lo stesso, fermo a quella data di aprile: l'ultima volta che ci siamo abbracciati. Il dolore è uguale ma voglio fare qualcosa, voglio tornare a vivere. Non intendo dimenticarla ma ho diritto di vivere."
Silenzio
"Ti ho odiato all'inizio. Odiato come non si può di più. Il carcere non era abbastanza, niente era abbastanza: avrei voluto strapparti il fegato con le mie mani, strangolarti fino a vederti crepare. Ho anche provato, quando sei uscito dal carcere la prima volta. Ti ho fatto seguire, pedinare: ho pagato per sapere che vita facevi ho seguito i tuoi spostamenti e movimenti per capire dove e come potevo distruggerti, ammazzarti. Poi ho visto con i miei occhi che non eri più lo stesso, che la sofferenza aveva forse distrutto anche te. Ho visto filmati recenti in cui lavoravi, cambiavi frequentazioni. Non sapevo cosa fare. Ho urlato, ho pianto. Volevo giustizia. Volevo smettere di soffrire."
Silenzio
"Vendetta Giulio,
vendetta.
Questa è la mia vendetta. Ti avessi ammazzato come un cane avrei continuato a piangere, magari in galera e per sempre. Mi sarei rovinato ancora una volta la vita ma io ho diritto a una seconda possibilità.
Forse anche tu ne hai diritto. Qui dentro.
Vendetta.
Lei era inerme quando l'hai colpita, quando le hai tolto la vita.
Tu eri inerme quando ho visto tirare fuori il tuo corpo dall'auto che stavo seguendo, tirato fuori dai medici che io stesso avevo chiamato
e sei inerme ora. Immobile, fisicamente distrutto e in tutto questo tempo sono l'unica persona che ti è venuta a trovare:
sei più solo di me.
Prendermi cura di te è la mia vendetta, la mia seconda possibilità di vivere.
Lasciarmelo fare finché sarai qui dentro sarà la tua espiazione, la tua seconda possibilità."
PAOLO SCHEMBRI