IL DISEGNO IN CLASSE
Andrea Zanarini si presentò in classe quel mattino con una scatola da trentasei della Caran D'Ache. Andrea era solito mostrare almeno una volta alla settimana un acquisto particolare che lo mantenesse al centro dell'attenzione di tutti i compagni: una gomma-dinosauro, le cancellabili Paper Mate, temperamatite dalle forme più strane, lo zaino di Big Jim oppure tutti quei giochi che molti di noi difficilmente potevano permettersi. Suo padre era proprietario di una grande azienda metalmeccanica mentre la maggior parte dei nostri genitori erano operai o impiegati e molte mamme casalinghe oppure piccole commercianti. Come suo vicino di banco avevo il privilegio o la sventura di sopportare tutti questi oggetti generatori di invidia appoggiati a pochi centimetri dal mio naso. Il mio compagno aveva infatti l'abitudine di tenerli in bella mostra anche durante le ore di lezione, almeno fino al momento in cui la maestra non comprendeva che fosse il momento di sequestrarli per spostare finalmente l'attenzione di metà della classe verso la lavagna.
I Caran D'Ache erano veramente un lusso straordinario ai nostri occhi: ognuno di noi possedeva solo la classica confezione di pastelli da dodici, più raramente da ventiquattro. Erano sottomarche, quelle che regalavano già inserite negli astucci insieme alle penne e alle gomme oppure i soliti Giotto che avevano però il fascino della storia dell'omonimo pittore e del maestro Cimabue: sempre uguale, sempre la stessa raccontata sul retro dell'astuccio con l'immancabile immagine del sasso e della pecora.

Spesso pensavo che 24 pastelli fossero molto belli da vedere ma inutili. Voglio dire: era bellissimo scoprire che esiste il "Terra di Siena" a fianco del "Terra di Siena bruciata" ma a me sostanzialmente serviva un marrone per fare la terra, per fare le scarpe, per i tronchi d'albero. La mela è rossa, il Sole è giallo: non farò mai un Sole "Ocra" e nemmeno "Giallo limone". Vada per l'indaco: in apparenza non esiste niente di indaco, basterebbe il violetto però come te la cavi se devi riprodurre un arcobaleno? Tutti sanno che in un arcobaleno l'ultimo colore è l'indaco e ci deve essere per forza! Era bello anche avere un "verde militare" ma le foglie e i prati li avremmo sempre colorati "verde pisello". Quasi nessuno, poi, sarebbe stato in grado di disegnare un soldato: già gli esseri umani in genere erano la parte meno riuscita dei nostri lavori tanto che spesso si preferiva non metterli per niente.
Ad ogni modo trentasei colori destavano nuove curiosità: cosa poteva esserci oltre il Terra di Siena bruciata? Mi chiedevo che razza di colori ancor più inutili e affascinanti avrebbero potuto tirare fuori: forse il "Terra di Siena bruciata ma non troppo"? "Porpora chiaro" e "porpora scuro"? "Blu di Prussia Occidentale"?
Andrea aprì quella scatola di pastelli incerati e questa mia tesi trovò conferma al primo sguardo: C'è il colore bianco! Cosa cavolo ci dovrei fare con il bianco? Il foglio di carta è già bianco.
Però che meraviglia! I colori erano ordinati perfettamente come nella foto riprodotta all'esterno, partendo dal bianco verso il giallo, i rossi, verdi e i blu fino al nero in un effetto ottico straordinario.
Io non accettavo mai l'ordine stabilito sulla confezione: il mio ordine era preciso ma personale e, nell'astuccio di scuola come nella scatola la sequenza doveva essere: rosso, arancione, giallo, blu, verde, viola, rosa, marrone (o marron, come usavamo definirlo con un francesismo) grigio e nero. All'interno di questa divisione i colori più chiari erano prima di quelli scuri quindi il giallo limone prima del giallo e il celeste prima del blu in quanto sostanzialmente un blu chiaro.
Molti in classe usavano ordinare i colori come me, in base alla classifica di predilezione. Ognuno a modo suo ma per tutti il rosso era il primo e grigio e nero gli ultimi due.
Andrea si vantò lungamente che i Caran D'Ache fossero "i migliori pastelli del mondo". Molti ripetevano questa affermazione come fosse una notizia ovvia e risaputa. Il fatto però che fossero racchiusi in una scatola di metallo e non di cartone accreditava pienamente la tesi di Andrea: non poteva che avere ragione.
Ci rivelò anche che quel regalo lo aveva ricevuto già da diversi giorni. Da questo si poteva dedurre che stava giocando la carta migliore per accrescere la sua popolarità tra i compagni il mattino in cui sapevamo si sarebbe disegnato liberamente in classe.

Alle 10.30 unimmo i banchi in gruppi da sei.
La maestra distribuì diversi fogli a testa e sparse per ogni gruppo un buon numero di pastelli, biro e pennarelli a caso, la metà dei quali non funzionanti. Tutti, educatamente, prendevano un solo pennarello a testa, cominciando da quelli a punta fine perché tutti i disegni partivano dai particolari, dai piccoli elementi e ancora prima dai personaggi: me stesso, i genitori, un mostro o un dinosauro. Si passava poi agli elementi naturali come alberi, corsi d'acqua e cespugli per finire con i grandi spazi ovvero terra e cielo. Era un po' il contrario della Creazione biblica.
Andrea disse di non voler usare il suo nuovo acquisto per non consumare subito quella meraviglia nuova ma preferì comunque utilizzare i pastelli, probabilmente per vantarne la superiorità rispetto agli altri mezzi. Tutti gli altri puntarono sui pennarelli.
Nei nostri lavori il significato era di gran lunga più importante del significante. Solo Massimo Morrone e qualche femmina curavano davvero i particolari, la colorazione e riuscivano a riprodurre immagini davvero somiglianti alla realtà. Per tutti noialtri contava mostrare agli altri l' "idea" di quello che si voleva rappresentare e per i più fantasiosi l'originalità, attraverso qualche elemento a sorpresa appena abbozzato. In questo senso tutto era lecito: anche un fumetto per comprendere l'intenzione dei personaggi o peggio scrivere sotto una didascalia per chiarire di cosa si trattasse. Luca Di Renzo addirittura non colorava quasi niente, disegnava solo i contorni di tutto direttamente con il pennarello e riempiva di giallo esclusivamente il Sole. Tutto il resto erano una linea verde per il prato, una marrone intorno al tronco e di nuovo verde per la linea ideale del fogliame; qualche gabbiano fuori posto a sorvolare il bosco e quel grosso Sole giallo. Tutto qui. Pronto in pochi minuti.
Francesco Bongiovanni invece era famoso proprio per il Sole: usava tutte le sfumature di giallo, rosso e arancione e nessun Sole era bello come il suo. Il mio migliore amico Orione disegnava sé stesso alla sinistra del foglio, sempre uguale, sempre piccolo nonostante fosse alto il doppio di me e di fianco a lui mamma e papà a tenergli le mani. Anche se Orione aveva perso la sua mamma alla nascita e quindi non l'aveva mai vista.
A volte qualcuno cominciava a disegnare astronavi o automobili: allora anche gli altri stracciavano il foglio già iniziato e cambiavano soggetto, a costo di sentirsi chiamare "copioni".
In generale però, i paesaggi o le scene di vita all'aperto erano prevalenti nei nostri lavori e, terminati gli esseri umani e la vegetazione (escluso Luca Di Renzo) era il momento di colorare prati, terra e cielo oppure i tetti rossi delle case se erano particolarmente estesi sul foglio. I pennarelli rossi sottili erano sempre pochissimi e consumati: quei pochi si trovavano subito nelle mani dei più rapidi ma il problema più grosso erano i pennarelli grossi celesti. Il cielo era la parte più noiosa del lavoro perché occupava metà del nostro A4 e, dovendo accontentarsi di strumenti celesti con la punta sottile, dopo una decina di secondi il tratto diventava sempre più chiaro fino a spegnersi quasi del tutto e la mano cominciava a farci male per il prolungato movimento mentre stringevamo forte intorno alla punta spostando il polso per parecchi minuti.
A quel punto io usavo togliere il tappo posteriore del Carioca, estrarre il tampone dell'inchiostro e utilizzarlo direttamente sul foglio fino a consumare deifnitivamente il colore e buttare il pennarello nel cestino. Odiavo il fatto che il cielo, essendo colorato in tempi diversi a seconda della disponibilità dei mezzi, fosse a chiazze, a toppe o addirittura con zone di celeste decisamente diverse a causa dell'uso di una marca diversa di colore. Era però inevitabile.
I Carioca grandi invece erano una pacchia: in meno della metà del tempo il cielo era finito e con pochissimi segni scuri dovuti alla sovrapposizione dei tratti. La sfida per i più pazienti e bravi era non terminare con la grossa punta azzurra anche sulle persone e sugli elementi già completati: sfida spesso persa dopo pochi secondi per la fretta di terminare.
In un angolo, Alex Mazzoni ed Enrico Nanni, si erano aggregati a formare un gruppo da soli sia perché i gruppi da sei c'erano già e avanzavano solo loro due, sia perché avevano litigato con molti dei maschi quella settimana per cui si erano momentaneamente isolati. Alex si lamentò tutto il tempo ché non aveva voglia di fare il disegno e tantomeno di mettersi a colorare. La maestra gli disse che era obbligatorio e lui ubbidì, pur continuando a borbottare a bassa voce. Dopo cinque minuti si alzò dal banco con il volto basso e le labbra protese in avanti a mostrare la sua contrarietà e consegnò il suo lavoro. Il foglio era quasi tutto bianco con poche righe a delimitare i contorni delle case, gli alberi spogli con i rami ben disegnati e i cespugli. "E' un paesaggio coperto di neve" disse, sempre tenendo il broncio "Devo andare in bagno" aggiunse e si incamminò verso la porta con falcate nervose senza chiedere il permesso all'insegnante. Era l'unico a non avere le mani indolenzite e non si era certo dato troppo da fare ma i pochi particolari, soprattutto gli alberi e i tetti coperti di neve, erano così ben realizzati da fare invidia ai nostri coloratissimi fogli. "Non voglio che ti comporti così in classe, Alex" disse la maestra ad alta voce ma senza urlare "comunque premio l'originalità del soggetto anche se l'impegno non è stato proprio il massimo"
"Originale sì. Oggi è il due di giugno" pensai tra me.
Alle 11.50 consegnammo i rimanenti lavori alla maestra, più o meno terminati, perché li voleva vedere e magari darci anche un'opinione quasi sempre gentile (purché si vedesse un minimo di impegno nella realizzazione).
Sulla pila di fogli colorati appoggiati sulla cattedra, quasi tutti simili, Enrico Nanni appoggiò il suo disegno per ultimo.
Era una bellissima riproduzione di Darth Fener, il "cattivo" di Guerre Stellari con la maschera e tutto vestito di nero, disegnato con una precisione incredibile ma visibilmente non ricalcato e a figura intera. Nero con la sua maschera e il mantello con le pieghe come un mantello vero.
Dalla sua bocca partiva un fumetto verso destra con scritto in stampatello:
"QUESTO E' L'ULTIMO GIORNO PER IL MONDO. DOMANI IL MONDO MORIRA' "
Molti risero mentre io ero impressionato da quel messaggio apocalittico.
La maestra, sorpresa quanto noi da quel piccolo e terrificante capolavoro, non ebbe il tempo di commentarlo a causa del suono della campana e ci spostammo tutti in sala mensa.
La stessa notte sognai di essere un personaggio di Guerre Stellari, prigioniero su un'astronave e chiedevo pietà a Darth Fener che mi puntava la spada laser agitandomi contro anche il dobermann del mio vicino (lo stesso che ogni mattina minacciava di sbranarmi bloccato solo dal cancello della villa dei suoi padroni).
Io piangevo dicendo che non avevo litigato con Enrico, era stato il mio compagno Luca di Renzo insieme a Matteo Morini della Quinta B. Per fortuna ci raggiunse proprio Enrico Nanni che mi dette ragione, scagionandomi dall'accusa e salvandomi la vita anche se ormai, in quella situazione, ero passato dal "Lato oscuro della Forza" senza nemmeno accorgermene
E alla fine non si stava tanto male: anche Darth Fener cominciava a prendermi in simpatia.
Il mattino dopo, venerdì 3 giugno, ci sedemmo ai banchi notando un solo posto vuoto, un solo assente: Enrico. Prima che iniziasse la lezione si sparse la voce che alcuni, gli ultimi entrati delle altre classi, lo avevano visto davanti alla scuola con un mantello nero mentre rompeva a calci i vetri dell'ingresso prima di essere portato via di corsa dai bidelli e dagli adulti accorsi sul posto. Nonostante un vetro gli avesse procurato un taglio sul ginocchio, scoperto tra i pantaloncini corti e i pedalini bianchi, lui avrebbe continuato a scalciare contro la vetrata per chissà quanto tempo e strillò quando lo spostarono di forza ma la cosa che lo irritò di più fu quando gli tolsero il suo bel mantello nero per medicare la ferita sul lettino.