venerdì 20 febbraio 2009

ANCORA DELLO SCRIVERE...

PERCHE' SCRIVIAMO, PERCHE' CANTIAMO?



Sentiamo sempre il bisogno di scrivere
altrimenti saremmo bestie
e chi non scrive si esprime comunque in altre maniere, in quelle che meglio gli riescono.


Quando canto voglio mostrare qualcosa: forse, tante volte, vogliamo far vedere che abbiamo tecnica


o voce


io voglio farvi vedere che ci sono io, in quella canzone, esattamente come nei personaggi che creo quando prendo in mano una penna.



Perché scriviamo?
Personalmente io mi dedico alla scrittura perché l'enoteca di fronte a casa mia è sempre chiusa.

lunedì 9 febbraio 2009

POESIA

COS'E' MAI QUESTA POESIA?



Non c'è vita senza arte. Questa è la realtà. Mi legassero mani e piedi e mi tappassero la bocca reciterei a mente, a rotazione tutti i brani, i versi e le musiche che conosco e ricordo.


Si rotoli nel fango e si accomodi da Trimalchione chi non ha in sé un moto per bellezze superiori.


E non c'è arte senza vita, senza l'uomo ed il suo spirito che cerca altro e non si abbandona alla quotidianità. Quanto più è difficile, oggi, che si vive in un mondo di bestie e di egoismo. Se non c'è amore per il mondo non c'è amore per l'arte.


E la poesia cos'è? Dov'è?


Forse è nei versi confusi e spezzati di un adolescente acceso dagli occhi di una coetanea?


Individuo passione ed ispirazione ma è solo metà poesia. Chi la scrive piangerà rileggendola ma io non piango ricevendo la cronaca confusa di un dolore già ascoltato. Non sarà la voce più impostata a trasformarla in arte. Chi non possiede l'arte usa parole già sentite, parole non proprie e chi le legge non può capire, non può individuare la peculiarità di quel dolore.


C'è forse poesia nelle rime forzate, nei neologismi eccessivi e negli avverbi poco credibili di qualche falso intellettuale dal vestito bizzarro e colorato?


Potrei rimpiangere l'adolescente inquieto.


Datemi musica nelle parole, i versi devono scivolare via nella lettura ed il ritmo delle strofe come il suono delle parole devono accompagnarne il significato senza contrapporsi, senza forzature e stonature.


L'ispirazione nasce in un minuto, l'arte richiede cura. Io non credo alla poesia nata e finita: se mai qualcuno ha composto un capolavoro alla prima stesura è un genio e se qualcuno crede di essere un genio rifletta. Un minuto per avere in testa tutto, ore, forse giorni per trovare l'esatta parola, il suono perfetto che tutti possano udire. Musica, sensazioni forti: una sola parola al posto sbagliato e si interrompe la forza


o la musicalità.


Moto interiore più tecnica. non esiste arte senza entrambe le componenti.


Bisogna avere qualcosa da raccontare


ed è necessario sapere come farlo, avere gli strumenti.


 


 


E chi non ama leggere, chi non si è nutrito dei più grandi geni della scrittura e dei versi non disturbi il prossimo con le sue composizioni ché chi non sa ascoltare nemmeno può sapere scrivere.


Ed allora: passione, realtà, abbandono dell'ipocrisia ma anche capacità di trasformare sentimenti in parole ed ancora musica, intenzionalità, cura e senso estetico. Come in una pittura perché chi pensa che una penna sia più semplice di un pennello sta tenendo in mano un coltello, in realtà. Sta pugnalando la carta.


Voglio forse dire che molti non hanno il diritto o non dovrebbero scrivere poesia? Tutt'altro: credo invece sia da incoraggiare l'abitudine alla scrittura di ogni genere purché non si abba la pretesa di definirla artistica, purché si sfugga dall'autocelebrazione di chi poeta potrebbe diventarlo, un giorno o di chi invece non potrebbe mai esserlo ma lo diventa andando a capo in maniera diversa rispetto alla scrittura narrativa. Magari con belle frasi ad effetto in stile aforisma.  Il confondere gli aforismi con l'arte e la poesia è proprio una delle mode degli ultimi anni.


Ma, in contraddizione con quanto detto penso sia necessario anche il coraggio di mostrare la propria arte, sia essa sublime o mediocre. La voglia di scrivere fine a sé stessa ma realizzare qualcosa che possa e debba essere letto da chiunque, con gli occhi ed il cuore.


Mi spiego: tutti hanno il diritto di esprimersi, di comporre e di mostrare


non si pretenda, solo, di potersi definire artisti in quanto in possesso di una penna carica di inchiostro e di un supporto cartaceo. 


La mia non vuole essere una lezione di filosofia ma una riflessione scritta. La mia idea sull'argomento.


E non parlo da artista quale non sono ché perlomeno ben conosco i miei limiti


però non potrei vivere senza leggere certi versi, senza scriverne di miei.


Non è un luogo comune dire che non sarei davvero vivo senza il conforto della poesia.


 


 


LEISURE


What is this life if, full of care,
We have no time to stand and stare.
No time to stand beneath the boughs
And stare as long as sheep or cows.
No time to see, when woods we pass,
Where squirrels hide their nuts in grass.
No time to see, in broad daylight,
Streams full of stars, like skies at night.
No time to turn at Beauty's glance,
And watch her feet, how they can dance.
No time to wait till her mouth can
Enrich that smile her eyes began.
A poor life this if, full of care,
We have no time to stand and stare.


                                   W.H. DAVIES



Perugino

lunedì 2 febbraio 2009

LA SECONDA POSSIBILITA'

L'AIUTO



Meno del solito.

Aveva bevuto molto meno del solito eppure aveva perso il controllo dell'auto

e aveva perso anche l'uso delle gambe. Del suo corpo rimaneva ben poco di utilizzabile: lo avevano salvato con tre interventi chirurgici.

Era ancora vivo. Aveva rischiato la pelle chissà quante volte in vita sua, preso anche coltellate nello stomaco, botte in galera fino a sanguinare ed essere ricoverato ma nell'istante in cui l'auto uscì dall'asfalto a 100 chilometri orari credette fosse finito tutto.

In quella frazione di secondo, credendo fosse l'ultimo suo secondo, riuscì a realizzare una fotografia della sua inutile vita: un flashback come nel peggiore dei film.

Nemmeno sapeva perché fosse ancora in vita: a nessuno interessava dello schifo di uomo che era. Nessuno poteva sapere che odiava sé stesso per tutto quello che aveva fatto e che era cambiato anche se a volte era stato ancora costretto a rubare. Però aveva smesso di usare droghe pesanti ormai da mesi e aveva trovato un lavoro. Gli sembrava impossibile perché non aveva mai davvero lavorato in vita sua e sembrava impossibile che in fondo gli piacesse, nonostante la sua mente e il suo corpo si rifiutassero di lavorare. Testa bassa, ritmo lento, non pensare. Non pensare a cosa sei stato, a quelli che dicevano di essere amici, ad aver commesso crimini che i primi tempi sembravano scherzi, prove di forza e dopo erano diventati normalità, necessità. Quegli stessi semplici crimini che ora lo facevano sentire una bestia. Testa bassa, gira la chiave, metti il pezzo, non pensare.

Non era certo diventato un santo ma non poteva togliersi dalla mente certi momenti, lo schifo del potere nelle sue mani, due omicidi inutili e una vita che voleva diversa anche se ancora non sapeva bene come.

Trovarsi ora impotente, bloccato, handicappato a vita e dolorante in un letto d'ospedale gli parve quasi una consolazione anche se non un'espiazione. Ora almeno era protetto da quel mondo orrendo di cui lui stesso era stato un altrettanto orrendo ingranaggio.

Il carcere non aveva cancellato niente. Entrò in galera convinto di non aver fatto niente di così esagerato. Dopo il processo e negli ultimi anni, invece, aveva visto su di sé il male, il dolore inutile: aveva visto la sua stessa cattiveria riflessa nello specchio di esseri umani come lui e si era sentito un mostro. Aveva letto, sentito, ascoltato e vissuto su sé il dolore che per tutta la vita aveva causato agli altri. Aveva vendicato la sua infanzia orrenda su chi non ne aveva colpe.


Uno schifo. Tutto. Uno schifo. Ora almeno c'era silenzio. Dolore ma silenzio. Sofferenza ma non violenza: nessuno lo odiava in quel luogo e lui non odiava più. Nessuno.

Nessuno

e a nessuno poteva più interessare di lui. Amici non ne aveva: poteva crederlo un tempo ma erano mostri come lui e non avevano bisogno di un paralitico piagnone in un letto d'ospedale. In verità era contento di non rivederli.

Eppure, quel volontario che veniva quasi tutti i giorni ad accudirlo: sembrava che a lui importasse qualcosa di essere lì. Lo salutava tutti i giorni, lo chiamava per nome quando non poteva rispondere e cercava di capire dagli occhi la risposta chiedendo "Come va oggi? Meglio?". Conosceva solo il nome: "Roberto" ed immaginava fossero più o meno coetanei.Una faccia già vista, forse, ma il dolore, i ricordi annebbiati, la poca voglia di sforzarsi a ricrdare non lo avrebbero eventualmente aiutato a riconoscerlo.

Neanche fosse un parente: ogni volta che poteva era lì, talvolta solo per venirlo a trovare e dirgli due parole ma più spesso si prendeva cura di lui in ogni modo; fosse anche per cambiarlo e pulirlo. Non parlava mai di sé piuttosto dava parole di incoraggiamento o comunicava miglioramenti, notizie avute dai medici.

Il ricoverato ancora non era in grado di parlare e non lo sarebbe stato ancora per diverso tempo. Il suo mento e parte delle ossa facciali erano stati ricostruiti. Quando fu possibile sbendarlo cominciò ad emettere qualche gemito o vocale per comunicare i bisogni primari aiutandosi con l'espressione degli occhi. Fu allora che tentò di capire, di comunicare con quel volontario dopo diversi mesi.

 "Eh....eh.....ooh! Ehoh"   pronunciò poco alla volta, con sforzo ma senza agitazione

L'uomo in piedi lo fissò, soddisfatto di quei primi segni o tentativi di comunicazione
"Tu vuoi sapere cosa faccio qui? - ed attese un cenno degli occhi dell'uomo -

forse è ora che te lo dica,  forse è arrivato il momento che tu sappia.

Non sono un infermiere, non sono nemmeno un volontario e neppure autorizzato. Mi sono finto tuo parente per poterti accudire, sono venuto qui così tante volte i primi giorni in cui eri in coma che nessuno dopo ha pensato di verificare chi fossi"

Gli occhi dell'altro cercavano inutilmente di capire come potesse finire quella strana storia. Il battito cardiaco aumentò in attesa di chissà quale rivelazione al momento inmmaginabile.

"Il mio nome avrebbe dovuto aiutarti: Roberto. Ma se ti dico Santi Roberto sono certo che capirai subito. Sono un po' cambiato: barba, pochi capelli ma anche il tempo, il dolore..."

Lo guardò più intensamente e solo a sentire quel nome si ricordò di aver già visto anche il suo volto.
"Ora sai chi sono ma anche se volessi mandarmi via, cosa non semplice viste le tue possibilità di comunicare, ti chiedo di non farlo. Penso anzi che non lo farai".

Dieci anni prima. Un furto che diventa un omicidio. Nessuna speranza: soldi subito o ti avrebbero fatto secco. Un assassinio inutile: coltellate per nervoso e paura a una ragazza e al suo fidanzato che nemmeno avevano reagito. Fu arrestato il giorno dopo. Letizia morì, Roberto Santi guarì abbastanza presto da essere presente al processo.

E ora, proprio l'omicida, poteva riconoscere la sua vittima seduta al suo fianco. Cambiata moltissimo, anche invecchiata con tutta quella barba ma era proprio lui.


Passarono tre giorni di silenzi

poi un altro gemito, appena accennato e a volume basso: "Eheh....eheh, Ih !"

L'altro lo guardò, dritto in piedi: guardò quegli occhi che esprimevano tutto l'assurdo di quella situazione.

"La penso ancora, sai. Sono passati otto anni ma non mi sono più fidanzato. Penso che lo farò, un giorno ma prima devo togliere il troppo dolore che mi porto dentro per quello che tu hai fatto. La sua foto è nello stesso posto, di fianco al letto e un'altra sulla libreria. In soggiorno il calendario è lo stesso, fermo a quella data di aprile: l'ultima volta che ci siamo abbracciati. Il dolore è uguale ma voglio fare qualcosa, voglio tornare a vivere. Non intendo dimenticarla ma ho diritto di vivere."

Silenzio

"Ti ho odiato, all'inizio. Ti ho odiato come non si può di più. Il carcere non era abbastanza, niente era abbastanza: avrei voluto strapparti il fegato con le mie mani, strangolarti fino a vederti crepare. Ho anche provato, quando sei uscito dal carcere la prima volta. Ti ho fatto seguire, pedinare: ho pagato per sapere che vita facevi, ho seguito i tuoi spostamenti e movimenti per capire dove e come potevo distruggerti, ammazzarti. 
Poi, però, ho visto. Ho visto con i miei occhi che non eri più lo stesso, che la sofferenza aveva forse distrutto anche te. Ho visto filmati recenti in cui lavoravi, cambiavi frequentazioni. Non sapevo cosa fare. Ho urlato, ho pianto. Volevo giustizia. Volevo smettere di soffrire."

Silenzio

"Vendetta Giulio,

vendetta.

Questa è la mia vendetta. Ti avessi ammazzato come un cane avrei continuato a piangere, magari in galera e per sempre. Mi sarei rovinato ancora una volta la vita ma io ho diritto a una seconda possibilità.

Forse anche tu ne hai diritto. Ora che sei qui dentro.

Vendetta.
Lei era inerme quando l'hai colpita, quando le hai tolto la vita.
Tu eri inerme quando ho visto tirare fuori il tuo corpo dall'auto che stavo seguendo, tirato fuori dai medici che io stesso avevo chiamato

e sei inerme ora. Immobile, fisicamente distrutto e in tutto questo tempo sono l'unica persona che ti è venuta a trovare:
sei più solo di me.

Prendermi cura di te è la mia vendetta, la mia seconda possibilità di vivere.

Lasciarmelo fare finché sarai qui dentro sarà la tua espiazione, la tua seconda possibilità."